L’Unità, 16.01.2002
La bellezza? La bellezza non deve essere perché è falsa. Così parlò l’arte contemporanea. Lungo tutto il Novecento, secolo che non finisce mai.
di SERGIO GIVONE
Donde un nuovo tabù: la bellezza, appunto. Come se sulla bellezza pesasse un interdetto. Quello che suona: tu non farai arte nel segno della bellezza. Quasi impossibile infrangerlo. L’arte che si concede a tutte le trasgressioni, e anzi vive di esse, nega a se stessa la sola cosa che potrebbe davvero fare scandalo.
Ciò è tanto più strano se si pensa che viviamo in un mondo dove solo quel che appare bello è degno di esistere. E’ il fenomeno noto come estetizzazione. Non c’è aspetto della realtà che non ne sia investito. Tutto, tutti, sembrano cercare una qualche salvezza in una dimensione che ha a che fare più con l’apparire che con l’essere. Appunto la dimensione estetica.
L’idea in fondo è che o si sta sulla scena o si è trascinati giù, nel vuoto, nel nulla. Da questo punto di vista la società dello spettacolo (ma forse sarebbe più giusto definirla società dell’avanspettacolo) rappresenta un perfetto rovesciamento della concezione socratica (ma poi anche platonica e cristiana) della vita. Diceva Socrate: non importa se quel che fai qualcuno lo vede, lo approva, lo disapprova, e così via. Importa che corrisponda al bene. Se sarà così, quel che avrai fatto è per sempre, è tutt’uno con quel che è giusto che sia, e tu sei salvo. Invece noi diciamo (pensiamo): non importa se quel che fai è bene o male, importa che qualcuno lo veda, insomma che sia messo in scena, e allora anche il gesto più ignobile, anche la vita più miserabile, saranno salvati: salvati dal fatto di avere un pubblico che nello stesso tempo ti deride e ti ammira.
Che cosa è accaduto? E’ accaduto che la bellezza non è (non è più) se non il fatto di apparire, cioè il fatto di essere in mostra. Quella luce della bellezza che un tempo sembrava disgelare misteriose profondità e scoprire enigmi, oggi non indica altro che il fatto di essere sotto i riflettori. Perciò la bellezza è diventata quella cosa banale e triviale che è diventata. A dettarne i canoni è la moda, l’arredamento, l’industria profumiera. Bellezza, oggi, è quella che trionfa nell’international style, quella che fa la fortuna dei parrucchieri, quella che balena nella pubblicità della biancheria intima.
Ovvio che l’arte non sappia più che farsene della bellezza. Con largo anticipo, come se sapesse dove saremmo andati a finire, l’arte del Novecento ha rifiutato la bellezza, ne ha smascherato il carattere ingannevole e menzognero, l’ha considerata un vero e proprio tabù. L’avanguardia dei primi anni del secolo (e poi anche dei nostri giorni) potrebbe essere interpretata come l’espressione di questo attacco premeditato al più antico concetto estetico. Fa dire Thomas Mann a Leverkühn, il musicista che adombra Schönberg: basta con il buono e il bello, basta con l’armonia, perché l’armonia riconcilia con il mondo. E come ci si può riconciliare con il mondo senza rendersi complici del male e dell’orrore che lo abitano? Non è forse vero che l’arte trasfigura e sublima il negativo a misura che è strumento di falsificazione?
Thomas Mann si appoggia alla filosofia di Adorno, ma prima ancora ai romanzi di Dostoevskij. Era stato Ivan Karamazov a contestare il concetto di armonia (e dunque di bellezza) in quanto concetto esteticamente equivoco e teologicamente mistificatorio. L’armonia? Un’idea di per sé interessantissima, secondo Ivan, anzi, la più alta e la più nobile che mai sia venuta in mente a quell’animale selvaggio che è l’uomo, e infatti gli permette di pensare l’armonizzarsi di tutte le cose in un senso ultimo – gli permette di pensare il paradiso. E tuttavia si tratta di un’idea da respingere. In nome delle vittime incolpevoli e del dolore che non si lascia redimere. Ivan sceglie di stare dalla parte del demonio. Cioè dalla parte della sofferenza invendicata e quindi della disarmonia, della dissonanza, della contraddizione.
La stessa parte dove sceglie di stare l’arte contemporanea. Contro la bellezza. Che diventa oggetto di rifiuto. E tabù. Semmai con una differenza. Mentre Dostoevskij e Thomas Mann continuano a pensare l’arte e la bellezza in chiave religiosa (in Thomas Mann addirittura l’arte si converte in una forma di religiosità laica, in una bestemmia necessaria e piena di verità, sofferta e tragica verità, al punto che il rifiuto della salvezza diventa la sola via a una disperata speranza d’essere salvati), invece l’arte oggi sembra averlo rimosso, quel legame con la religione, e comunque non conservarne memoria alcuna. Ma come reagire, ogni volta che incontriamo l’arte contemporanea, di fronte alla nuda esibizione della cosa, sia che si tratti di oggetto figurativo, suono, o ente di realtà? Come accogliere quel puro esser lì di ciò che ci è offerto tanto in una sala da concerto quanto in un museo ma anche altrove, se non nel quadro di una teologia rovesciata e paradossale? Che altro è se non il tentativo di dar voce al silenzio di chi sa il mistero che ci circonda ma sa anche la falsità di tutte le risposte possibili? Mai come in questo caso vale l’osservazione di Walter Benjamin, secondo cui la teologia se ne sta nascosta nelle pieghe della storia, ma continua a muovere leve segrete.
Eppure, nonostante tutto, Dostoevskij ha il coraggio di dire: sarà la bellezza a salvare il mondo. Proprio lui… Lui, che con la figura di Kirilov, forse il più inquietante dei suoi personaggi, ha innescato il cortocircuito bellezza-salvezza. Voleva diventare Dio, Kirilov. E ciò dandosi la morte, liberamente, in stato di grazia, quando tutto gli sarebbe apparso bello, tutto perfettamente giustificato. Ma il risultato è orrendo, spaventoso. La luce nera del colpo di pistola è un’epifania d’inferno, che precipita l’apparire, questo attimo eterno magicamente sottratto al male, nel baratro di una sciagurata illusione. Davvero profetico ed esemplare, il suicidio di Kirilov, per come ci raggiunge nella nostra pretesa di salvarci attraverso un autoinganno. Raggiunge noi, succubi del modello mediatico che identifica apparenza e realtà. Per cui chi appare è, per ciò stesso, fatto salvo, salvato dal non essere nessuno. Com’è accaduto (è cronaca di questi giorni) a quel poveretto che si è impiccato dopo aver sistemato una videocamera di fronte a se stesso.
Nondimeno Dostoevskij dice: la bellezza salverà il mondo. E se a dirlo è uno che ha visto così a fondo nella bellezza, tanto da anticipare quell’opera di demolizione e di demistificazione cui l’arte contemporanea si sarebbe poi dedicata per decenni, non sarà che costui ha visto anche l’altro aspetto della bellezza, cioè il suo aspetto luminoso, che ne fa un’esperienza di rivelazione, di conoscenza, di verità? Dostoevskij affermava d’avere occhi per «entrambi gli abissi».
E c’è da credergli. Nel qual caso però bisognerebbe seguirlo e infrangere l’ultimo tabù. Che non è quello della bellezza che seduce e incanta (tabù già ampiamente infranto). Ma della bellezza come esperienza da prendere terribilmente sul serio (ultimo tabù estetico). E magari da rimettere all’ordine del giorno nell’agenda dell’arte.